RIFLESSIONI A MARGINE E COMMENTI SULLA POESIA EPICA

3 Maggio 2015

Paolo Borzi riapre la discussione sulla poesia epica (per gli interventi precedenti scorrere in basso questo post) con questo suo scritto nel quale approfondisce i temi da lui già trattati su queste pagine nell'ottobre '14 e che coinvolgono la sua stessa opera come sanno i lettori di 'La materia di Britannia, in ottave libere e incatenate (2011)' e di 'Le tavole della leggenda. I sogni e le ragioni di una intramontabile epopea cavalleresca' (2014).

1-Epica come pensiero infantile adulto, ma non degli odierni adulti
I temi che trovo più stimolanti tra quelli che vedo trattati, in questo mio primo intervento compiuto (il precedente lo presentai come un elenchetto da non pubblicare, ma per me è comunque un onore essere riportato qui) si riferiscono alle connotazioni “sessuali” dell’Epica, al suo rapporto con gli “eroi” e soprattutto gli altri generi poetici e letterari. Una ulteriore Epica al femminile è ovviamente argomento di estremo interesse, fermo restando che l’Epica è già di suo in ottima parte “femminile”, sia nel senso del Folklore, che uomini e soprattutto donne hanno prodotto insieme; sia per il suggerimento d’un pensiero “integrale”, mono e poli senso, che è poi lo sviluppo d’un pensiero infantile potenzialmente “intero”, che diviene adulto rimanendo quello che è, senza mutare e oserei dire “inquinare” la propria “forma”. L’attualità di questa “forma”, sia come genere letterario che come sensibilità laicamente “religiosa”(e aggiungerei accettabilmente “esoterica”) delle persone umane di oggi, rendono particolarmente importante questo dibattito.
Per un bambino la letteratura sono favole e filastrocche. L’Epica null’altro sarebbe che l’evoluzione adulta di quelle stesse modalità. Una letteratura spesso “di peso” non altro sarebbe che letteratura infantile che cresce, magari anche ipertroficamente, rimanendo tale, cioè la  versione adulta di quel cucciolo lì.  Come forse anche una donna e un uomo sono e restano veramente tali solo divenendo la copia accresciuta della bimba e del bimbo che erano, senza  s-formarsi mediante un elemento o un esempio educativo “ostili”. Noi qui, in questi meravigliosi posti virtuali (il presente Sito) o reali (la Bicocca) inevitabilmente stiamo trattando dell’umanità. E di Letteratura in senso pieno, di Grandi Opere ben più impellenti della TAV o il Ponte sullo Stretto, quelle che nel Passato hanno attenuto all’Epica come sostantivo o almeno come aggettivo (poemi strettamente epici nel primo caso; vasti poemi altrimenti “epici”, grandi tragedie e alcuni Romanzi moderni monster, nel secondo).
2-L’Epica rinnova  ritrovando gli stili di “sempre”
Ritrovando l’Epica, dunque, si ritrovano sia una forma pensiero sia le grandi opere di letteratura. I suggerimenti anche “tecnici” sono attualissimi, soprattutto dopo una certa saturazione dei modelli contrari: a contraddistinguere un narratore tornerebbe ad esempio la capacità di tenere in piedi e saper dare strutturazione  a un universo fantastico; e a contraddistinguere un poeta proprio la capacità di mettere su almeno una buona filastrocca. Nessuno si ritenga escluso o peggio irritato: al di fuori di un’epica radicale, resterebbero ovviamente condizioni non sufficienti e forse nemmeno necessarie-senz’altro però non più improbabili di altre-e tra quelle che fortunatamente vengono riconsiderate proprio nell’ottica di una avveduta e professionale sensibilità d’avanguardia (quella, per esempio, interessata all’allegorismo tendenzioso, al Fantastico u-dis topico e all’elaborazione concettuale delle forme tradizionali chiuse); e che inoltre chiederebbero solo di ritrovare un loro umile posticino. Circa politicità,  socialità e “storicità” sarebbero come da sempre indiscutibili, nel senso di un ritorno delle Lettere, ma anche delle Arti in genere, dentro una opposizione ideologicamente fortissima alla disumanizzazione della società, alla sua venalità, all’hybris, alla volgarità, alla violenza per fini e interessi bassi e privati. Quoto riguardo ciò, e con entusiasmo, il pensiero della De Pietro.
3-Epica, epiche e derby (col morto) tra lirici e tragici
Un uso della parola “epica” come “semplice” aggettivo potrebbe riguardare varie poetiche “nuove”, alleabili certo a una epica-come sostantivo-nuova, in un processo virtuoso come da sopra: e tra queste certo quelle che si occupassero in forme “liriche” di vittime di disagi e disagiati “empirici”: cosa meritoria che non dovrebbe però far dimenticare che la letteratura punterebbe anche a sfamare chi ha fame di letteratura, e a muovere quanto più può la sua lotta di civiltà contro l’hybris e dunque anche indirettamente-il che non vuol dire inefficacemente-le ingiustizie e le sperequazioni singole e sui singoli. Non so come “se la  passassero” tutti i poeti epici della Storia: senz’altro molti a consumarsi la vita e la salute per un solo o quasi Lavoro, Milton senz’altro da cieco, lui, ovvero uno dei migliori artisti mai nati in questo Pianeta… Oggi poi, si può anche avere due lire e la vista buona, ma ci si impelagherebbe comunque in una battaglia massacrante e assurda, ritenuta folle se non addirittura ridicola ed anacronistica dai più. Certi abbozzi di “derby” tra poeti epici e lirici, o tra chi ce l’ha più “oversize” in fatto di “umiltà” e tasche vuote, possono a volte risultare persino divertenti e meritavano un altro cenno (derby, così come il tresette, “col morto”, che ovviamente sarebbe il poeta integralmente epico).
4-Armi Donne Amori e Incantesimi? Altre sane provocazioni
A proposito di provocazioni dialettiche, sempre utili anche quando persino (direi consapevolmente, visto il tenore di ben altre note redazionali) sconcertanti, mi ha colpito quella non firmata in data 10 novembre 2014: quando vengono sfornati, per identificare l’epica tradizionale, non solo luoghi comuni (la Musa, l’Amore, la Guerra, l’ Eterno Femminino), ma anche radicalmente sbagliati. Ma anche questi sono passaggi provvidenziali (e la scaltrita e coltissima Redazione lo sa), perché servono a sfatare, mediante il dibattito, luoghi comuni che sarebbe superficialità peggiore archiviare come superati.
Di certo, tralasciando le  accoppiate “ovvie” Vita-Morte e Coesione-Hybris, cercare un binomio di tematiche più centrali di altre nell’Epica che abbiamo avuta (anche volendo confondere i temi con gli ambienti, che pure sarebbe cosa già di per sé discutibilissima), è del tutto obiettivamente arbitrario. L’EnciloEpica, infatti, può essere definita solo privilegiando criteri fondativi, che cronologicamente sono quelli sumero-accadici, e culturalmente etnologico religiosi. Questi criteri, che non sono i soli ma almeno vantano una loro “primazia” accertabile, ci rivelano che ad esempio l’epopea di Gilgamesh tratta di tutto fuorché proprio l’amore e la guerra. Non è una paradosso, è ESATTAMENTE così.
Gilgamesh ha le armi sempre pronte e al suono del pukku (tamburo) fa accorrere i suoi guerrieri. Il padre degli dèi ascolta i lamenti delle mogli di questi e dei loro genitori, e convoca Aruru (dea madre) affinché generi una controparte di Gilgamesh di modo che il re lasci i guerrieri alle loro famiglie (….)
L’incipt assoluto dell’Epica è abbandono della Guerra ad avvio della Formazione (In questo l’Odissea è più epica dell’Iliade): mediante l’elemento “selvatico” (Enkidu), ma assai spesso proprio il gioco e la sessualità (sociale e-o rituale), che sono, insieme all’amicizia, i veri pilastri dei legami familiari e dell’erotìa accadica, che prevede addirittura delle tristi conseguenze dopo la morte per chi “non strappa le mutande al proprio partner”. Gilgamesh dovrà capire due cose fondamentali: l’orrore della guerra, cui sfugge per diventare “uomo”; e la rinuncia ad essere immortale. Curare il piccolo e rendere felice la propria compagna sarà il suo grande Compimento. Non si parla dunque nemmeno di “amore”; ma di sesso complicità ed amicizia (che poi possiamo considerare questi tra gli ingredienti fondamentali dell’ “amore”, è altro paio di maniche). Tho, fate l’Amore e non fate la Guerra!!
Tralasciando un inutile elenco dei temi etici trattati ad esempio nell’Iliade, guerre come proprio quella di Troia (la madre delle tragedie greche), o di Ulisse contro i Lestrigòni, o quella appunto di Gilgamesh con Enkidu contro gli Uomini Scorpione, o la necessariamente-e direi storicamente, fosse avvenuta-utopista di Artù, ci interessano se mai come paradigmi o addirittura proto-pacifismi e non certo guerre. Altrettanto la magia non interessa troppo l’Epica neanche antica, perché cerchiamo Circe non certo per la ricetta dei suoi “farmaci tristi”, o la natura dell’Erba di Ermete per neutralizzarli, ma per ben altri motivi. Il riferimento della Redazione all’ Eterno Femminio lo capisco ancora di meno: è forse dovuto al fatto che Pallade Atena, deità della Sapienza, è appunto una dèa? O perché Elena, Cassandra, Penelope, la regina Ginevra sono tanto importanti? Chiaro che dovrei comunque fermarmi per non fare un saggio o peggio un trattato. A parte il lirismo-lirismo- esoterico dello Stilnovo, con infiltrazioni in Petrarca, qualcosa di epico che tratta l’eterno femminio (proprio con Elena!) è il Faust di Goethe, ma eviterei di addentrarmi, anche per rispetto dell’Opera; col permesso di suggerire i piedi di piombo a chiunque.
Circa la Musa, la ha già abolita Klopstock qualche tonnellata di decenni fa (ma già prima di lui Tasso, per altri motivi), mentre l’unica guerra reale e a noi abbastanza vicina nell’epica che possiamo tenere a conto, la Rotta di Roncisvalle, non fu una guerra ma un’imboscata; e tanto l’Epica ha in uggia la Guerra che il Paladino Orlando è stato tramandato come capace di tutto, fuorché di quella dimenticata impresa, nota ormai quasi soltanto a quella razza scarsamente epica che sono i filologi. Circa Tasso, dal cui periodo in poi non  mi occupo in questa disamina, ci si è messo “de core”, diremmo a Roma, per fare un’epica guerresca su basi storiche “approfondite” e non ci è riuscito proprio. L’epica sana (le altre non ci interessano o sono “minori”) rifugge la guerra come un sorcio il gatto mammone. Piuttosto, fu proprio il grande Torquato a “stabilire” che i due grandi saperi allotri dell’epica-un’epica già a suo modo concettuale- dovessero essere proprio la storia e la scienza.
5-Folklore “ricostituito” come forma trans-genere di cultura popolare “alta”
Donne e uomini reali sono gli ideatori reali di quell’articolo in gran parte non solo grammaticalmente femminile che è l’Epica (tra molte contraddizioni dovute a tanti diversificati “depositi”). Forse per questo, da persona maschile interessata più di ogni altra casa alla formulazione, in letteratura, di un pensiero “integrale”, trans-genere e anti sessista, trovo nell’epica tradizionale il terreno privilegiato per le mutazioni attualizzanti che ne propongo. Mutazioni attualizzanti, appunto, perché qui è il nodo della improponibilità delle cose così per come erano, non nei loro argomenti o insegnamenti. Chiaro che questa mia ricerca d’un pensiero “intero” e anti-sessista proprio mediante l’Epica, può essere pieno di limiti e visuali monche, tanto poco importanti proprio perché personali; mentre la messa in discussione di un simile intento potrebbe riguardare gruppi e argomentazioni ben più rilevanti e generali. Per quanto mi riguarda, giudicherei ugualmente reali donne e uomini che su questo punto la vedessero come meglio parrebbe a loro. Circa supponibili “archetipi sessuali” ricavabili da una cultura popolare e sapienziale latamente “tradizionale”, la loro eventuale “spendibilità” riguarderebbe comunque trasversalmente le persone umane d’ambo i generi empirici.
6-Da Euridice a Pamina al Doppio Sogno a… La Coppia negli Inferi e sua “dissacralizzazione”
Se definiamo “maschile” il mono senso (e dunque anche la Scienza, proposta dalla Redazione come sapere allotrio privilegiato dell’epica nuova) e “femminile” il poli senso, questo avrebbe riflessi interessanti nei plot relativi, dove ad esempio un maschio e una femmina si unissero come alleati ed “eroi” centrali “dissacralizzati”, cioè “sacri” proprio perché “universali” ma anche ridimensionati come buffi, irregolari, e anche però “genuini”. E’ un po’ lo sviluppo della favola massonica, di mozartiana memoria, della discesa agli Inferi in Coppia, ma adattata a persone comuni. I riflessi sul plot, anzi meglio, l’anti plot, riguarderebbero un misto di linearità logica e legami per “agglutinazioni” vitalmente-si vorrebbe-destabilizzanti. E’anche questo un po’ il nodo del rapporto tra il plot tragico e le digressioni  psicagogiche, cioè l’essenza vera dell’epica, per me la più rilevante da adottare per una definizione. L’altra è la formazione parallela individuale e collettiva, in chiave utopistica.
Ma ovviamente non direi che il mono senso (scienza) è necessariamente maschile e il poli senso (cognitività allotria) femminile. Di certo, se lo spirito umano non li mette per bene insieme, ciò inciderà pesantemente non solo sulla letteratura e i suoi generi (la cui sopravvivenza anche separata è legata alla loro fusione entro le epiche nuove, con l’indebolimento della distinzione netta tra prosa e poesia), ma sulla cultura viva e dunque la vita delle donne e degli uomini di questo mondo. Grande fu Kubrick nel suo ultimo film sulla novella di Schnitzler, quando imbottì il Doppio Sogno infernale d’una Coppia alla ricerca d’una nuova coesione e collaborazione dentro l’abisso , con tanta musica dell’ultimo Mozart…. Kubrick, Schnitzler, Mozart stesso, e ancora indietro… a inanellare una serie di personalità che se ci desse fastidio definire “illuminate”, potremmo credo concordare tutti nel definirle illuminanti.
7-Wu Ming dai Buoni Propositi al Mitologema della Coppia agli Inferi, e in mezzo?
Il trattato sulla NIE, pubblicato da Einaudi nel 2009, sembra un panino con la preziosa imbottitura di fuori, e con dentro un  vuoto ( ancorché rivelatore). Si inizia con una sfilza di propositi entusiasmanti e si chiude proprio con lo stupendo mitologema della Coppia agli Inferi. Dentro, una auto investitura del Gruppo, come quello degli uomini di mezza età che sanno l’allegoria,anzi l’allegoritmo, smanettano di Rete meglio di tutti e mantengono il timone di una cultura apprezzabilmente “pop” , sempre se interna alla Industria Culturale (ma probabilmente quella più a rischio all’interno della Stessa). Fuori da essa Industria, oltre ovviamente agli sfigati che rigetta, qualche (testuale) “parnaso di stronzi” non meglio identificati (stronzi citati più non identificati uguale temuti, ma chi?)… Ma non era l’Industria Culturale a battezzare il e nel Parnaso?, verrebbe anche da chiedersi. E’ comunque apprezzabile che Wu Ming riconosca un altro livello di ricerca menzionabile, se pure mediante il dileggio coprolalico. Per altri alfieri meno avveduti dell’Industria Culturale, altro da loro, semplicemente, non esiste; e un giornalista pervenuto al podio dello Strega può tranquillamente recriminare per non essere salito ancora di più.
Ma l’intuizione centrale del saggio è eccellente: L’epos antico si può travasare “a nuovo” in una specie di romanzo storico allegorico formalmente eccentrico. Bene, solo che enunciarlo e parlare di una sperimentazione “moderata” (“coraggiosa ma potabile” rispecchierebbe di più il mio punto di vista) dentro l’Industria Culturale odierna, è obiettivamente assurdo, come voler fabbricare aerei in un cantiere di monopattini. Senza con questo escludere che qualche buon veicolo, sotto la supervisione dei bravi Whu Ming, possa uscire fuori; ma non è certo con queste arroganti chiusure che si promuove un fenomeno di questa portata, in tutte le direzioni e proporzioni che merita. Arroganza, atteggiamento di difesa e apologia di libri che non discuto, ma che difficilmente fanno allo scopo (da Romanzo Criminale al biografico d’autoformazione al fanta-etnografico), sono gli ingredienti del vuoto centrale… assordante inoltre per l’assenza di una sola citazione che sia una di Stefano d’Arrigo, come Epico prosastico italiano ultramoderno, sia pure per scostarsene.
Da autore d’un testo assai “datato”, zeppo di mitologemi e non solo (la Morte del Vecchio, l’Allievo a Zonzo, l’Onesto alla Macchia, catabasi e Psicacogia di Coppia, endecasillabi e ottonari tra e dentro la prosa) con cui si auto contraddistingue-un aspetto qua e uno là-certa NIE, mi sento in una strana posizione, quella appunto di uno che avrebbe  fatto un testo, forse l’unico, con TUTTE le caratteristiche accreditate nel saggio Einaudi, a parte proprio la “sperimentazione moderata”, l’accoglimento nel parnaso industriale e naturalmente l’essere fuori tempo minimo come concezione (ben prima del 1993)… Nebulosa magnetica o qualche causalità diretta, sono entrambe improbabili ma pure le uniche possibilità. Dubbi e sconcerti si placano però nel favore e nel fervore per cose comunque finalmente enunciate, che ci fanno sentire meno soli dopo decenni di militanza, nello specifico, praticamente e assurdamente solitaria.
Meno soli epperò vogliosi, anche grazie ai Wu, di classificazioni e definizioni, magari per esclusione. Basta, ad esempio, per fare l’Epica, il mitologema dentro il plot? No, molti fumetti, e certo anche buoni libri, rientrerebbero senza essere “epici”… O tutti epici, il che fa lo stesso. Basta una trattazione forte del Bene e il Male in chiave di urgente attualità e pregnanza collettiva? No, anche se questo mi convince di più. Basta la grandiosità come Italia Germania 4 a 3? No. Poeticamente, basta adeguare l’assetto dei versi e occuparsi di tragedie collettive? Forse quasi sì, etc… Sto ovviamente svariando al limite d’un divertimento, che spero però sensato. Circa Epica come Anti Epica (A uguale non A, ma temo che Hegel c’entri pochino), cioè quella delle Vittime (la nuova) contro quella dei Carnefici (l’antica) credo d’aver già detto qualcosa e ci tornerò in conclusione.
Tra Gomorra di Saviano e la tendenza in poesia a un “nuovo” assetto dei versi e negli argomenti, passerebbe comunque una specie di filo, strano ma  nodale; sempre che il sasso lanciato da Wu Ming venga raccolto e rilanciato meglio, come i compagni di Epicanuova stanno facendo. Essendo più che ovvio che una classificazione non concerne scale di valori, potendo essere una schifezza un testo radicale e un capolavoro uno epicamente spurio, il mio consiglio è “sentire” la cosa al plurale (Epiche Nuove), segnando le varianti con aggettivazioni più specifiche, quando i fattori “tradizionali”, cui dobbiamo i nomi e i concetti, ci siano tutti o quasi; relegando in secondo piano, anche in omaggio alla buona intuizione di Wu Ming, la querelle poesia e-o prosa, come assetto “esteriore” della composizione.
8-Conclusione

L’Epica è quella cosa che talvolta solo a nominarla si scalda il sangue e ci viene l’umido agli occhi. Essa produce vittime solo quando tace. Per questo sentiamo che ravvivarla significa qualcosa che va ben oltre la letteratura, come un voler ritrovare un sole dell’umanità, affondando ben bene nelle radici. L’epica sociale contemporanea e quella operaia di ambiente tardo moderno, oggi, possono venir prima, senza per questo dover riproporre l’idea, trita e totalmente sbagliata, di un’epica antica fatta di eterni adolescenti maschi vogliosi di menare le mani al vento di qualche boriosa ideologia aristocratica, sotto un firmamento di stereotipi femminili. Perché, allora, mantenerne il nome? Il rischio di fare un’epica senza epica mi parrebbe  già sufficientemente frequentato altrove.



25 marzo 2015

Lucianna Argentino rivive in queste sue righe la sua partecipazione alla rassegna di Poesia e Storia e insegue le ragioni fondanti della sua poesia in un percorso che chiama in causa tutti noi.

Ho partecipato con molto piacere alla rassegna poetica organizzata da Franco Romanò e Paolo Rabissi, anche perché è stata l'occasione per rivedere diversi cari amici. Molto interessanti poi gli interventi a seguito degli incontri che vanno ad ampliare e integrare un discorso inesauribile. Con partecipazione aggiungo pertanto alcune considerazioni a quanto ho già detto anche perché poco tempo fa, leggendo “Essere poeta” di R.W. Emerson mi trovo davanti a queste parole: “Milton dice che il poeta lirico può bere vino e vivere nell'abbondanza, ma il poeta epico, colui che canterà gli dei e le loro discese fra gli uomini deve bere acqua da una ciotola di legno. Perché la poesia non è  'vino del diavolo' ma vino di Dio”,  Ora io non sono totalmente d'accordo con questa affermazione perché penso che i poeti bevono (o almeno dovrebbero bere) da una ciotola di legno. Tutti i poeti che siano veramente poeti. Mi chiedo infatti se potrei mettermi al tavolo a scrivere dopo aver parcheggiato in garage la mia Ferrari, ma mi chiedo pure se potrei farlo dentro una baracca dove non so cosa dare da mangiare ai miei figli. (in quest'ultimo caso in verità mi viene in mente Marina Cvetaeva che ha vissuto e scritto in condizioni di vita davvero misere e come lei anche altri). Allora bisogna intendersi su cosa è “poeta lirico” e su cosa siano quel vino e quell'abbondanza anche perché Milton che ha scritto il poema epico “Paradiso perduto” non credo che letteralmente bevesse da una ciotola di legno, insomma non era uno che se la passava male. E' pur vero che si è dedicato alla poesia dopo aver lasciato la carriera diplomatica... Ma probabilmente sto analizzando quelli che forse sono solo dei dettagli, tuttavia, come si suol dire, sono i dettagli che spesso fanno la differenza. Certo nel 600 in Inghilterra la religione è un tema fondamentale nella letteratura, allora Milton voleva sostenere l'immagine del poeta come una sorta di asceta o forse puntava ad un ascetismo interiore e dunque a bere acqua da una ciotola di legno doveva essere la poesia e non il poeta? Non credo. Non credo che la poesia possa prescindere dal poeta. Forse vado fuori tema, ma in realtà penso che in poesia non ci sia un fuori tema...
Ho apprezzato gli interventi di Alessandra Paganardi e di Nino Iacovella che parlando dei loro lavori poetici ci hanno offerto anche la loro officina interiore condividendo le motivazioni che li hanno condotti davanti alla pagina bianca. Motivazioni che partendo da un 'intima radice si sono poi estese orizzontalmente nella volontà di conoscere la propria storia attraverso la storia dell'Italia in anni significativi per tutta la Nazione.
Aggiungo che anche per me la questione non è storia minuscola e/o Storia maiuscola. A questo proposito mi viene in mente l'immagine del cavallo di Troia, tanto per rimanere strettamente in tema, ossia di come esso possa essere preso a simbolo o meglio ad allegoria: il cavallo è la Storia e gli uomini dentro (non importa quanti fossero) sono la storia e credo che non si possa scinderli.  Il cavallo è l'astuzia e l'inganno. Ma è pure la ri-soluzione di un conflitto, la fine di una guerra, la bomba H della seconda guerra mondiale. E da qui un salto ancora, un passo doveroso visto l'accenno alla Grecia, verso un' apertura europea e certo Franco Romanò dal suo domicilio berlinese potrebbe dirci cose preziose e importanti. Ma tornando alla poesia voglio aggiungere che i testi che lessi il 15 dicembre scorso tratti dalla raccolta inedita Le stanze inquiete che sono il frutto di una esperienza lavorativa alla cassa di un supermercato e in cui, dunque, racconto brevi storie o meglio brevi istanti vissuti nel lasso di tempo di uno scontrino, sono pure la testimonianza di quell'empatia che è la capacità della poesia di uscire dalla pagina. Non è solo il poeta che deve immedesimarsi nell'altro, provare, ripeto, empatia (parola bellissima e densa di profondi significati) per l'altro (umano, animale e vegetale e perché no? anche per le cose frutto del lavoro di altri, di tanti altri – basta pensare alle centinaia di persone che ci sono dietro il pc con cui sto scrivendo) ma è la poesia stessa che deve esprimere questo sentimento, con questo però non voglio dire che la poesia deve essere un luogo ameno, una sorta di casa di riposo dell'anima. Tutt'altro! Semmai una palestra! Una montagna da scalare, un oceano da attraversare. Il mio amico  poeta di cui parlavo nel precedente intervento e che si chiama Massimiliano Damaggio ed è un bravo poeta in una recensione ad un libro di poesia parla di pars destruens e pars construens cosa che mi ha fatto riflettere su come la poesia abbia in sé entrambi questi aspetti. La poesia demolisce i nostri pensieri precotti, preconfezionati, il nostro sguardo assuefatto e opaco e gli ridona nuova vita, nuovo vigore, ci offre la possibilità di creare pensieri e sguardi nuovi, originali. La poesia, infatti, deve anche scuotere, “scandalizzare”, ma nel far ciò deve accogliere l'altro, farlo sentire in un luogo familiare, in un luogo di nuove possibilità.

Quando in seguito alla pubblicazione di stralci del mio poemetto “Gestazione dell'addio” su NoiDonne nella rubrica curata da Luca Benassi mi contattò la sorella di Valentina Cavalli la giovane a cui il poemetto è dedicato, tra le altre cose nella email che mi inviò mi ringraziava per non averla contattata prima per farle delle domande. Le risposi che un poeta non è un giornalista e che non avevo avuto bisogno di farle domande né di aver subito la stessa disgraziata sorte della sorella per scrivere. L'unica cosa è che forse da donna avevo più cognizione di causa. Tutto qui. Il resto è risonanza umana. E' poesia.


4 Marzo 2015

Alessandra Paganardi, intervenuta come autrice nella rassegna Poesia e Storia, tenuta lo scorso autunno alla libreria Franco Angeli in Bicocca di Milano, dove ha letto suoi poemetti nell'incontro dedicato al Novecento, ci scrive le sue riflessioni e così commenta:

STORIA E STORIE, CITTA’ E DIMORA NEGLI INCONTRI DI POESIA ALLA BICOCCA.

La parola “epica” ha la stessa radice del verbo “raccontare”: ma non è necessariamente un racconto d’eroi, come siamo abituati a considerarlo dai tempi della scuola. Piuttosto una narrazione di vita, in suggestiva consonanza con “epoca”, cioè con la Storia - e con le storie - in cui tutti siamo immersi. 
Da tale prospettiva è partita la rassegna di poesia organizzata da Paolo Rabissi e Franco Romanò, due scrittori da tempo attivi nel promuovere una scrittura aperta al mondo e di forte impatto sociale. La location non poteva essere migliore, sia sul piano scientifico che geografico: la libreria Franco Angeli dell’Università Bicocca, luogo simbolico – nel suo felice isolamento dal centro di Milano – di un patrimonio culturale insieme protetto e condiviso, nonché distintosi recentemente per un coraggioso aumento dell’assegno di ricerca ai giovani dottorandi. Di questa eccellenza la libreria è parte integrante e vitale: qualità e varietà dei titoli, un marketing intelligentemente orientato al book-sharing e al recupero dell’usato, senza l’atmosfera un po’ triste (quasi da hard discount culturale) dei classici reminder; infine la rara ospitalità della libraia Giulia, che affianca alla passione per i libri un amore per la vita a tutto tondo, ben percepibile nei gustosi spuntini preparati con le sue mani e offerti con generosa attenzione al pubblico della poesia. Un posto che, nella congerie di non-luoghi metropolitani, può a ragione chiamarsi dimora.
Quattro incontri di storie, scritture e vite diverse per generazione, poetica e stile: sempre in costante dialogo fra voci della contemporaneità e maestri acclarati, questi ultimi recitati da Laura Vanacore (ricordo per tutte la lettura di Adonis, nel corso del primo incontro, al quale ebbi l’onore di partecipare insieme con Nino Iacovella). Sono felice di aver dato il mio contributo a questa rassegna, proprio perché non credo nella falsa dicotomia fra quotidiano ed eroico, così come non mi ha mai convinto il rassicurante appellativo di “poesia civile”. Sarà banale dirlo, ma ogni verso scaturito da un confronto con la realtà, cioè da autentica ispirazione e non da uno sfogo intimistico, è civile, cosmopolita, umano. E’ questa la condizione necessaria, anche se certamente non sufficiente, per ogni serio e decoroso cimento poetico. 
In occasione di questa rassegna ho avuto modo di leggere – o meglio di rileggere - un poemetto nato alcuni anni fa dopo lunga gestazione, intitolato “1978” e ispirato anche ai miei anni di piombo (ma quale adolescenza non lo è stata?). Quando lo scrissi non era – almeno così spero - la prima volta che cercavo di misurarmi con una poesia civile, nel senso detto precedentemente; tuttavia non ne ero mai stata così consapevole. Quando composi quel poemetto, già una decina d’anni fa, qualcosa di diverso scattò in me, quasi la coscienza di una responsabilità nuova associata al gesto della scrittura. Da allora, non a caso, ho sorvegliato sempre più i miei versi: da allora temo ancor meno i lunghi, testardi e fertili silenzi, che servono a corroborare una disciplina mai abbastanza severa. 
Fare epica, fare poesia civile significa anche questo: trascegliere dalla realtà, e dalla nostra mente che vi è continuamente immersa, soltanto ciò che ci appartiene; evitare i minimalismi sentimentali, ma anche i facili e roboanti argomenti d’occasione. Immergersi nella Storia – questo scandalo che, per dirla con Elsa Morante, dura da diecimila anni – solo nella misura in cui lo possiamo, in cui ne siamo coinvolti e quindi capaci. Forse per questo elessi a fonte ispirativa proprio l’anno 1978: uno dei più tragici per la nostra democrazia, che il caso ha fatto coincidere con il compiersi del mio quindicesimo. Quasi un intreccio, naturale ma tutto da scoprire, tra Storia e storie - senza altre parole.


                                                          
4 Marzo 2015

Annamaria De Pietro, presente agli incontri della rassegna Poesia e Storia, tenuta lo scorso autunno alla libreria Franco Angeli in Bicocca di Milano, interviene con queste considerazioni che aprono interrogativi decisivi sul senso di una poesia epica nuova:

È plausibile, oggi, pensare al ritorno di una scrittura epica? Oggi, un’epoca di valori appiattiti, di medietà mentale sottesa a non autentiche opposizioni, un’epoca in cui troppo si assomigliano le motivazioni e le reciproche accuse delle parti che dovrebbero, da rubrica, essere avverse.
L’epica, che nella storia, e nella storia della letteratura, ha prodotto alcune fra le opere più alte della scrittura, sorgeva da un terreno sociale, e politico, nel quale le opposizioni erano chiare, reali, sanguinose, guerresche, non, come oggi, scialbate da un chiacchiericcio che poco, realmente, dice. L’autore, e i suoi eroi, prendevano posizione, entro un progetto, una certezza d’intenti, una tensione fortemente volontaristica. Detto banalmente, l’autore e i suoi eroi avevano un’idea chiara di quali fossero i “buoni” e quali i “cattivi”. E da quest’idea chiara traevano un progetto consapevole, attivo, battagliero, fino alla morte.
Ma già il problematico hoggidì secentesco, l’apertura a un dissesto generatore della “modernità”, comincia a minare quel bastione di certezza: Cervantes manda la sua marionetta d’eroismo allo sbaraglio in un mondo invincibile, Tassoni canta il riacquisto di una secchia. L’epica diventa comica, o triste canto di una crisi.
Oggi, temo, l’epica ha trasmigrato declassandosi, e neppure comicamente, e neppure criticamente triste, ma entro una anodina caligine di noia, nelle arti“ minori” o in declinazioni “minori” di arti “maggiori”: da un lato il fumetto di Nembo Kid, dell’Uomo ragno e compagni, e i videogiochi che conquistano grandi e piccini con la loro violenza fine a sé stessa, compiaciuta e ferale per le menti; dall’altro lato larghe parti, e largamente apprezzate, del cinema: guerra, western, catastrofico, fantascientifico, cappa e spada (Dumas molto soccorre), il pastiche di non definite epoche remote e un altrettanto indefinito futuro; tutte forme nelle quali l’eroe salvatore dell’umanità o di sue piccole parti preferibilmente americane compulsivamente, come attivato da un gettone inserito in una smagliatura dell’uniforme, replica all’infinito imprese sempre uguali, in un appiattimento che attraversa unificando i generi, e le singole opere, tanto che viene naturale pensare che basterebbe cambiare costumi e scene per trovarsi automaticamente in un altro genere, in un’altra opera.
Ora, probabilmente la riconquista di una misura epica nella scrittura richiederebbe come imprescindibile terreno di coltura la fiducia volontaristica e audace in un progetto, mirato, definito: un’idea. Un’idea riconoscibile, non disponibile a farsi format (parola di moda, ma qualche volta è utile piegarsi alle mode), non consenziente a negare ed annegare la sua unicità pensata in un indifferenziato che tutto accoglie e appiattisce, bastando solo cambiare costumi e décor. E di conseguenza dovrebbe pure – ma mi rendo conto che qui entriamo in un terreno difficile -, individuare un suo linguaggio precipuo, che non ricalcasse ovviamente il linguaggio dell’epica tradizionale, ma che si differenziasse nettamente, sdegnosamente direi, da ogni altro linguaggio, e segnatamente da quel linguaggio misero e corrivo, appiattito su un ripetitivo, noioso ricorso alle minuzie quotidiane, seriali, intercambiabili, insignificanti, che ormai da tempo accomuna narrativa e poesia, al sicuro dal rischio dell’invenzione. Un terreno difficile davvero.
Riprendendo il tema portante della volontarietà e consapevolezza di quello che sia l’autore del libro che l’attore dell’impresa vuol fare e perché, ritengo che non possa rientrare nella misura epica, non possa vestire i panni dell’eroe, la vittima che non prenda in mano, fortemente e consapevolmente, lungo la spina di un progetto, il tentativo della sua salvezza. Perché anche un’”epica nuova” deve pur sempre essere epica, la narrazione di un gesto estremo, probabilmente, anzi no, strutturalmente, votato al sacrificio, alla morte, fisica o sociale, in qualche forma di esclusione ed esilio. E così ritengo non convincente una postulata “epica del quotidiano”, perché il quotidiano è lineare, e obbedisce al tempo, mentre invece l’impresa epica lo spezza il tempo, e lo disprezza, lo chiude intero in un grumo di individuale determinazione pensata, un aleph in cui, disobbedendo, l’”atto”avviene. Non ripetibile, non riciclabile, non comune (comune in tutti i sensi).
L’autore occupa la sua parte del campo di battaglia (il pensiero è battaglia), e sa e conosce quello che nell’opera avverrà, e le premesse di quello che avverrà, ne è consapevolmente partecipe; dell’autore l’attore è in qualche maniera il sicario, armato del suo pensiero in battaglia. O forse vale anche l’inverso, e allora l’autore sarà il banditore in piazza dell’impresa, dell’eroe, di una precisa volontà di vittoria e salvezza.

Comunque sia, tutti e due, autore e attore, devono crederci, e credere che imprendere eroicamente serva a qualcosa, a tutto: come Gilgamesh, come Marfisa chiusa nei ferri, e anche, sì, mi suggerisce l’avvocato del diavolo, come John Wayne.


24 febbraio 2015

Nino Iacovella ha partecipato al primo incontro della rassegna Poesia e Storia, tenuta lo scorso autunno alla libreria Franco Angeli in Bicocca di Milano e intitolata Novecento. La sua lettura ha riguardato la sua ultima raccolta di versi Latitudine delle braccia (di essa prossimamente avremo modo di parlare nella sezione Contemporanea). Lo stesso poeta ci ha regalato un suo commento sull'iniziativa e sulla poesia italiana che qui riportiamo.

Il movimento di lungo periodo dell'arte poetica italiana di cui si è parlato negli incontri con Paolo Rabissi e Franco Romanò ci ha fatto discutere sulla possibilità di individuare una nuova forma di epica nella poesia italiana.
Così com'è intimamente epico, o etico, il loro volersi estraniare dal coinvolgimento istituzionale del mondo letterario, una scelta utile per isolarsi dal rumore di fondo di un ambiente che, pur vissuto e analizzato, in parte si rinnega.
Una poesia da tempo incanalata nel binario prevalente dell'autoreferenzialità lirica, quella italiana, impregnata di una sorta di "poetica" che spesso non approda ad alcun valore o sentimento universale. "Poetizza" sul proprio io senza ambire, per volontà o mancanza di capacità, alle corde emotive del lettore. Una forma di autocompiacimento senza la minima ricerca di un atto comunicativo che spesso scivola, anacronisticamente, anche nell"iperletterario. Così come la poesia "simulacro", ossia l'ostentata rappresentazione di una certa idea preconcetta del sublime.
Voi rispolverate la poesia "epica" per innestarla in questo contesto di lirismi predominanti. Il compito è arduo ma doveroso; basta aprire gli scenari della poesia attuale, farle respirare aria pura, nuova perché l'epica, oggi, non può prescindere dalla realtà. Il poeta deve offrirci il suo sguardo attraverso la poesia, un guardare e sentire il mondo che gli sta attorno ripropostoci con "responsabilità creativa" attraverso il testo.
La poesia epica è eticamente chiamata a comunicare.
E' molto bella la declinazione che ne fa Lucianna Argentino, donna e poeta di grande sensibilità, che attribuisce all'epica le vicende piccole ed eroiche delle persone semplici. Epica, quindi, non come dinamica collettiva, di un popolo verso la sua storia, ma come sommatoria di singole esistenze che quotidianamente affrontano le difficoltà del vivere, quando in ognuna di queste permane quel senso etico e profondamente umano, nonostante quel senso di spaesamento e di lacerazione valoriale dell'epoca.
Nel mio caso, nella stesura del libro "Latitudini delle braccia" non ho avuto alcun progetto epico. Ho voluto solo instradarmi verso una ricognizione della mia vita. Autoreferenzialità? Non proprio. Perché ho vagato, per questo, nei posti al di fuori di me per poterla andare a cercare: la strada, le piazze, i non luoghi. Mi sono riconosciuto "osservandomi" attraverso gli altri. Solo così mi è stato possibile capire quale fosse il mio contributo al rumore di fondo del vivere collettivo, quello del nostro tempo. E questo vivere collettivo, che mi comprende, l'ho trovato davvero poca cosa.   
Per questo sono tornato indietro nel tempo, per cercare un aggancio verso un vivere al quale potessi attingere un esempio, un ideale, una abbraccio aperto verso l'altro, che troppo spesso ora ci manca.
I testi sulla memoria della guerra in Abruzzo, sulla resistenza, sono infatti un tentativo di ancoraggio verso un periodo di grande solidarietà, eroismo e umanità nonostante la barbarie. Basti pensare alle gesta della banda dei partigiani della Brigata Majella che, dopo aver liberato la loro terra, l'Abruzzo, si sono affiancati alle truppe alleate per risalire le Marche e L'Emilia per liberarle. Qui, per me, vi è l'ultimo periodo della mia storia (mia in quanto storia della mia gente) dove posso ritrovare una definizione classica di epica. Se ho trovato poi una voce, un canto per rievocarlo con coerenza, forse per me è stato, nel tempo, l'unico mio atto individuale e incosciente di epica. Se di epica si tratta.


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10 Novembre 2014


RIFLESSIONI SUI COMMENTI AL BLOG SIN QUI PERVENUTI

Prima di tutto vorrei ringraziare tutti gli intervenuti che con le loro osservazioni e spunti critici hanno rilanciato i contenuti che abbiamo proposto, ne hanno avanzati di nuovi o sollevato altri interrogativi assai stimolanti. Ne raccolgo alcuni, trasversali a molti interventi e uno che mi viene in particolare suggerito dall'intervento di Paolo Borzi, quando al punto sette delle sue riflessioni, dopo avere affermato che da sempre l'epica è sede di saperi allotrii, si domanda quali sono quelli che oggi potrebbero interessare l'epica nuova.
Il primo che mi viene in mente è il sapere scientifico anche se non si tratta di una novità assoluta. Lo ha già fatto Pagliarani, altri lo hanno sfiorato, eppure mi sembra che il campo da esplorare sia qui molto vasto, ma necessiti anche di uno spostamento di prospettiva. Guardando indietro nel tempo e anche fuori dall'Italia, nomi di poeti e narratori che hanno celebrato la scienza come impresa epica ne trovo diversi; dai grandi ai semplici narratori-divulgatori come Jules Verne. Oggi, però, occorre una serie di precisazioni. L'euforia positivista che nutriva molte di quelle narrazioni resiste solo come ideologia e molto di quello che la pubblicistica ci indica come scienza è solo tecnologia spacciata per verità assoluta, cioè una forma moderna di teologia medioevale. Tutto ciò pone delle grandi difficoltà perché da un lato il riferirsi di nuovo alle scienze implica la messa in atto di un pensiero critico, ma dall'altro questo espone l'artista al rischio di un'invasione di campo. Non si può parlare di scienza senza cognizione di causa, lo si poteva fare per esaltarla, come nelle narrazioni di cui ho detto, oppure per criticare la sua propensione faustiana ma anche questo oggi non basta più. Chi si limita a denunciare ciò è destinato a non trovare alcuno spazio, oppure a fuggire per la tangente verso l'irrazionalismo o il pensiero magico  che sempre si accompagna ai momenti di grave crisi sociale.

Più in generale mi sembra che tutti gli interventi concordino con la necessità di precisare ulteriormente, di approfondire, di stare nella contradditorietà dei pensieri che accompagnano la poesia, come nella riflessione di Lucianna Argentino, che condivido in larga misura con alcune precisazioni. Non si stratta tanto di grande storia o meno, perché credo che abbiamo precisato che l'epica nuova, o come si chiamerà, non ha al proprio centro la figura epica per eccellenza (eroe o eroina), ma proprio le vittime silenziose o meno di quella che un tempo si sarebbe chiamata epica. In questo senso raccolgo anche la sollecitazione di Marcello Carlino sulla improponibilità dell'epica tradizionale. Concordo, ma mi sembra interessante cercare di dire perché, pur dando per scontata la sua improponibilità. Faccio allora due esempi precisi su materie che erano il pane quotidiano dell'epica classica e cioè l'amore e la guerra. Partiamo dalla seconda.
Quale qualità eroica ci può essere in un combattimento che non avviene più da decine d'anni ormai fra eserciti contrapposti, ma è sempre più guerra contro i popoli e le popolazioni civili? Mi verrebbe da dire che l'epica si collochi solo dal lato di chi non combatte ma ne subisce le conseguenze: un vero paradosso.
L'amore. Dopo che le avanguardie del primo '900 hanno demistificato gli stilemi del linguaggio amoroso e dopo che il femminismo ne ha svelato la parzialità spacciata per universale, tutte le figure tradizionali come la musa, l'eterno femminino ecc. sono in qualche caso cadute addirittura nel ridicolo, oltre che mostrare di essere costruite su un immaginario del tutto avulso dalle donne reali. Forse è fra le scritture poetiche femminili che si potrebbe indagare sulle modificazioni dell'immaginario che esse esprimono o meno.
                                       

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INVITO AL TERZO INCONTRO DELLA RASSEGNA:

                                                    POESIA E STORIA IN BICOCCA

                                               QUARTO INCONTRO




QUARTO INCONTRO.

LUNEDÌ 15 DICEMBRE ORE 18.30

LIBRERIA BOOKSHOP FRANCO ANGELI VIALE DELL'INNOVAZIONE,11 DI FRONTE AL TEATRO DEGLI ARCIMBOLDI NELLA PIAZZETTA RIBASSATAME


COME ARRIVARCI? METRO LINEA ROSSA FERMATA PRECOTTO POI TRAM NUMERO 7 (DUE FERMATE), LINEA 3 FINO A STAZIONE CENTRALE E BUS 87, OPPURE STAZIONE FERROVIARIA GRECO PIRELLI CENTO METRI A PIEDI IN DIREZIONE DI VIALE INNOVAZIONE.


MIGRAZIONI.


Presenta Paolo Rabissi.


Leggeranno i loro testi:


LUCIANNA ARGENTINO E FRANCO ROMANÒ

L’attrice Laura Vanacore leggerà io testi poetici di

YANG LLIAN.

Alla fine della serata rinfresco.

INGRESSO GRATUITO


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27 ottobre 2014

Pubblichiamo altri due interventi che commentano criticamente i contenuti di questo blog.

Adriana Perrotta:

Il dato primo per me è che il discorso smuove  qualcosa, a livello di riflessione, quindi centra il bersaglio, in un tempo di proliferazione insensata di parole scritte e parlate.


E non poteva essere diversamente, dal momento che le figure, i paesaggi, le situazioni che Epica Nuova chiama in causa per un verso riguardano la nostra vita presente e quotidiana, collettiva e individuale, pur con le dovute distinzioni di condizioni socioeconomiche, di esperienze di vita e di pensiero, chiamano in causa  cioè la Storia e le storie, non enfatizzerei una netta separazione tra l'una e le altre, perché si tengono in stretto collegamento, influenzandosi a vicenda, come del resto ha mostrato con maestria Elsa Morante. 

Per un altro verso Epica Nuova tratteggia figure, rimanda a situazioni, delinea paesaggi, esteriori e interiori, che abbiamo conosciuto con altri nomi e in altre epoche, elementi che fanno parte del nostro modo di sentire, pensare, parlare, del nostro immaginario quindi, comune oltre che artistico, che abbiamo appreso fin dalla nostra venuta al mondo, nella comunità di parlanti alla quale apparteniamo.
Allora il cortocircuito si attiva immediatamente, senza bisogno di esplicitarlo; non per tutt*, d'accordo, questo dipende in un  certo grado anche dalle conoscenze più o meno approfondite della letteratura e soprattutto dalla sensibilità personale di ciascuno/a. In questo senso eviterei di essere didascalici, non apporterebbe nulla, ma nuocerebbe in qualche modo appesantendo il blog in senso dottrinale.

Quale la funzione dell'arte nel sociale? 
Domanda un po' retorica, la risposta non può essere anticipata, semmai potrà essere ricostruita dopo, dagli storici e dalle storiche dell'arte, dei costumi sociali e antropologici di un'epoca, la  risposta semmai riguarda i posteri, non i e le viventi, che l'arte la vivono e la respirano, più o meno consapevolmente, nelle molteplici forme  nelle quali si presenta di volta in volta. 

Marcello Carlino:

La vostra iniziativa è particolarmente apprezzabile, intanto per le ragioni che espongo di seguito:
a) la necessità di ripristinare una scrittura che fuoriesca dagli ambiti della autoreferenzialità per dimensionarsi più marcatamente e
più responsabilmente nell'ambito della socialità e della politicità;
b) un ripensamento dell'apparato di produzione della letteratura - dico con Benjamin - che implichi un riposizionamento dell'autore
nonché una riqualificazione dei mezzi di comunicazione letteraria e di interazione culturale;
c) l'impulso alla rielaborazione critica e alla progettualità della poesia, per tanto tempo accantonate;
d) anche nella prospettiva di cui al punto c) una rilettura tendenziosa della tradizione e, nella tradizione, il privilegiamento
di una linea minoritaria ma oppositiva, minoritaria proprio perché oppositiva.
La proposta dell' "epico", al di là della terminologia adoperata più o meno condivisibile epperò strumentalmente assai utile, va però
discussa e approfondita - ed è naturalmente ciò che voi intendete fare augurandovi una incoraggiante partecipazione; sulla mia, nei tempi
per me possibili, contateci pure - anche perché occorre distinguere la nuova parola-progetto e comunque determinarla in rapporto:
- ai fondamenti e ai modi dell'epica classica e della sua tradizione, oggi irrecuperabili;
- alle forme di una dicibilità e di una cantabilità di taglio realistico/predicatorio o quotidiano/minimalista altrettanto irrecuperabili;
- alla new epic che ha segnato, con qualche semplificazione e con qualche contraddizione di troppo, il dibattito sopra la narrativa
recente;


- la postulazione tuttora aperta, e tuttora da rivisitare, della allegoria.

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26 0ttobre 2014

Riprendiamo oggi  a pubblicare i commenti che in questi mesi dall'uscita del blog ci sono giunti.
Ringraziamo con calore autori e autrici. Nel nostro progetto contiamo di poter avere prossimamente un incontro con tutte/i.


Antonino Contiliano:

A suo tempo ho letto il testo della nuova epica dei Wu Mi, e molto sinceramente, come nelle tue e mie aspettative, spero che la "diepicanuova" (di epica si interessa e conosco anche l'iniziativa di Gianmario Lucini, edizione CFR) segni un taglio netto e, come in Foucault (L'ermeneutica del soggetto) la nuova etica (la cura del sé privata e pubblica), non sia scissa dalla critica politica e dall'economia politica che le identificazioni in corso impongono all'agorà vecchia e nuova. Certo è che il quadro dei "dispositivi" di disciplina e controllo biopolitici (da Foucault messi in luce), egemonizzato dal biopotere capitalistico, non ha sminuito le analisi materialiste di Marx, bensì ne è un arricchimento e un aggiornamento. Del resto quelle prime analisi non conoscevano le tecniche della meccanica quantistica e l'economia digitale della globalizzazione, ma ne avevano preannunciato l'arrivo. La "diepicanuova"  ha davanti queste sfide. Facciamo in modo che sia una sfida e una testa d'ariete? Il mio primo impatto, dalle poche cose lette, sull'iniziativa del blog è positiva e di fiduciosa.

Donato di Stasi:

Ho letto con attenzione la presentazione del blog. Concordo in larga parte, ma
voi aprite discussioni amplissime, interi mondi culturali e antropologici si  affollano nella mente e reclamano comprensione. Sono argomenti da meditare a lungo, primo fra tutti il senso dell'epica, la  sua attualizzazione in un tempo che sembra poter fare a meno della letteratura  in genere. Sono felice di poter portare il mio contributo, lavorando su Pagliarani e sui  suoi testi: è un autore che amo particolarmente, poi mi citi il sublime Walcott (come si fa a non scrivere qualcosa su di lui?)
ai prossimi aggiornamenti.


Carissimi, il libro qui sopra linkato,  prefato dalla Cancellieri, ci dice bene quanto sapevamo: gli impiegati, ovvero proletari borghesi, hanno fatto la migliore letteratura moderna, in specie il Romanzo. Quale “classe”, se così potrebbe essere ancora il caso di dire, farà l’Epica Nuova? Il Romanzo, a sua volta, nasce dall’alveo avventuroso dell’Epica, il lato ulisside della medaglia omerica, e il Bretone di quella medievale francese.
Ora, l’ Epica nuova, cosa dovrà al Romanzo moderno e cosa all’antecedente omerico e bretone avventuroso? e cosa poi al lato “tragedia” (Iliade e Canzone d’Orlando) dell’epica greca e medievale? Qualcosa poi forse dovrà anche alla poesia “frammentata” moderna? Questo genere di considerazioni ci portano dentro la parte mancante dei vostri discorsi, che sono bellissimi e tutti condivisibili, e mi hanno davvero emozionato.

Articolo mancante 1): genere letterario dell’Epica Nuova. Facile rispondere: poema epico nuovo. Siamo sicuri? Per me, il Poema Epico antico è la summa a monte di tutti i generi letterari possibili; il Poema Epico nuovo potrebbe essere una sintesi a valle, forse. Di certo non alludo a una soluzione necessariamente unica.

Articolo mancante 2): struttura tragica e-o no di detto poema(sopravvivenza-o meno- delle famose “unità”, di preamboli, nodi e scioglimenti etc.).

Articolo Mancante 3): lato psicontico. Questo particolare lato riporta  vari depositi magico-avventurosi dell’ Epica Tradizionale, in una parola al Folklore, allegorico ed  esistenziale. L’epica Nuova ha un Nuovo Folklore? (argomento magistralmente sfiorato da Paolo Rabissi quando allude alla “separazione” del fiabesco e suo relegamento all’ infanzia) etc.

Lato mancante 4): assetto della versificazione. A fare l’Epica Nuova sarà più l’argomento o il “tono”. Il primo, senz’altro (alto, drammatico, collettivo, nobilmente “guerresco” tra Bene e Male), ma solo in presenza d’un secondo elemento che gli sia adeguato (tenuto, lungo, ondoso, breve, sincopato, misto, etc.?). Subito dopo viene il problema della metrica, che è secondario a questo tipo di scelta base.

Lato mancante 5): Epica Concettuale e Riscritture. Siamo sicuri che Ariosto e Tasso siano superati? Forse sì, ma interessante sarebbe (è) scavalcarli all’indietro. Il Ciclo Bretone, ad esempio, è una immane Tragedia (sia come storia ispiratrice che come ossatura base) su cui non è mai stata fatta una singola Tragedia, se non dagli sceneggiatori moderni e dal sottoscritto (poema epico a “riquadri”, non a caso, per buttarla maggiormente lì, sul teatrale). Uno dei risvolti “moderni” di questa operazione, che mi è balzato mentre lo producevo, è il “setaccio” dei depositi aurei, o, per meglio forse rendere, il disseppellimento dello “psiconte-tartufo” dalla mota delle convenienze e sconvenienze modali del proto romanzo basso medievale. Poi, la “messa in evidenza” dello psiconte e la stringatezza modale della poesia moderna, con distillazione audiovisiva dei tempi, delle cose, e dei movimenti (la “cinematografia sentimentale” di campaniana memoria). Riconosco in Paolo Rabissi forse l’unico-insieme al prefatore- che ha inteso interamente  le cose come volevo fissero intese. Per fare sette punti, ne mancano due, direttamente richiamati da questo.

Lato mancante 6): misura delle “stanze”, ovvero  ottava rima, alias riproponibilità di stilemi appartenenti a un “popolo remoto”. Il discorso ovviamente è sfumato, può riferirsi a un rapporto di ispirazione, rivalorizzazione, riguardante i “brani dei brani”, le “stanze” come piccoli circuiti nel Grande Circuito etc. Personalmente, quanto ho rilevato  dell’ottava provandola a “sfruttare” in questa direzione, è stato un adeguato funzionamento, sia rispetto l’intento “cinematografico” di cui sopra; sia rispetto la capacità di compendiare efficacemente i versi brevi all’interno, e di modulare narrazioni e moti lirici attraverso l’uso anche quasi esagerato dell’ enjambement.

Lato mancante 7): Saperi allotri. L’Epica è sempre stata un deposito di saperi non-poetici. Quali i privilegiati dell’Epica Nuova?

Facciamo 8 per scaramanzia ottavaiola.

Lato mancante 8): dialettica “Servo-Padrone” per un marxismo critico che finalmente creda fin nelle midolla che il sapere è  roba da  subalterni. Poco o forse nulla è stato colto, dal noto passo della Fenomenologia dello Spirito, che possa riguardare i discorsi che stiamo facendo. Il “Servo”, in realtà, tenendosi stretta la morte vicina, ma anche affrancandosi e nobilitandosi col suo lavoro, apre l’Avventura del Sapere e il Sapere dell’Avventura. Sottoproletari antichi e proletari borghesi furono gli “eroi” (sarei tentato di togliere le virgolette) di quelle meraviglie che chiamiamo poemi antichi e grandi romanzi moderni. Ora, gli eroi possiamo pure toglierli sia dai contenuti, sia dai loro ideatori. Ma l’Epica resta, e mi pare che quanto andiamo dicendo possa esserne una conferma.

Al contrario di Voi accennerò in coda alla mia produzione, che sia sul rapporto col Romanzo moderno (le Sciamanicomiche), che con nuovi generi letterari (Nuovostilvecchio), che con “riscritture concettuali” (la Materia di Britannia), non fa che dimostrare la millimetrica coerenza con le mie convinzioni. Circa l’opera prima (il Trivio dell’Innocenza) ritengo che la scalcinata “epopea”-in endecasillabo ottaveggiante-di Pasquale Bricci, morto suicida forse per la retrocessione della sua squadra del cuore, appartenga-almeno spero-a un presagio di epica nuova, piuttosto che al calco dell’eroicomico, proprio per essere il protagonista un borghese emarginato senza volontà di potenza ma anche nobiltà subalterna: Eros e Thanatos lo spiaccicano dunque in una morsa rapidissima, preludendo, attraverso Frate Indovino (ciclicità sacrale e rurale sperimentata da una sorta di  Bricci sopravvissuto) e alle metanoie del “Corbezzolo Lucumonico”, a una sorta di riscatto neo-folklorico e anch’esso dunque neo epico.

Vi abbraccio forte e vi ringrazio entusiasta per questa iniziativa

Paolo Borzi


26 Ottobre 2014

Lucianna Argentino.

Caro Franco,
ho letto con attenzione quanto dite tu e Paolo Rabissi e per cominciare posso dire che è da un po' che anch'io sto riflettendo su quale poesia sia necessaria oggi. Tuttavia mi dico pure che forse è un falso problema perché la gente va comunque al cinema, alle mostre d'arte, a teatro, ai concerti (sì è vero un po' meno alle letture di poesia) e che dunque l'arte è necessaria, risponde a delle esigenze profonde dell'animo umano che vanno oltre le preoccupazioni per il futuro, per la crisi economica. Insomma risponde a delle esigenze che prescindono dal periodo storico. Che la poesia è comunque e sempre necessaria qualsiasi volto essa abbia. Ma queste sono tutte considerazioni ovvie e banali. Però è pure innegabile che i tempi che stiamo vivendo ci pongono davanti a delle istanze che non possiamo ignorare. Dal mio balcone al sesto piano che affaccia su un mercato rionale nel pomeriggio, prima che arrivino gli operatori dell'Ama, vedo poveri cristi e gabbiani contendersi frutta e verdura rimaste a terra e mi chiedo quale poesia potrei leggere a quella persona? e che penserebbe? mi manderebbe a quel paese? penserebbe che la sto prendendo in giro? o magari ne sarebbe contento? Addrizzerebbe la schiena e starebbe ad ascoltarmi? Subito dopo penso a Neruda, a Neruda che va a leggere poesie ai minatori cileni che lo ascoltano, si commuovono, li recitano a memoria e non credo che gli leggesse poesie sulle terribili condizioni in cui vivono i minatori altrimenti credo proprio che lo avrebbero cacciato a pedate nel sedere! Sulla poesia ho delle idee contraddittorie, forse è l'unico modo di avere idee sulla poesia. Un mio amico dice che le poesie dovrebbero essere pietre, io gli ho detto ok, ma non per lapidare semmai per smuovere le acque stagnanti della nostra coscienza (anche se  ogni tanto lapidare – a parole - qualcuno sarebbe cosa buona e giusta. ma la bellezza poi, mi chiedo pure, dove finisce? non muore assieme al lapidato?). Poi mi dico che il poeta deve essere un po' rabdomante e cogliere le esigenze della gente, un medium che viene a contatto con lo spirito del tempo che gli suggerisce cosa è necessario scrivere in quel momento. Ma il poeta deve seguire le necessità del mondo o le proprie? E la poesia parlando a tutti i livelli  dell'essere non è in qualche modo sempre attuale anche se non è contemporanea? E le proprie necessità non sono poi quelle del mondo, visto che pure il poeta vive nel mondo e non sulle nuvole come pensa qualcuno? Voglio dire che la poesia non può essere slegata dal proprio tempo, perché non lo è il poeta che la scrive anche se sì Pasternak si affacciò alla finestra e chiese ai bambini che giocavano “Miei cari, qual millennio è adesso nel nostro cortile?” ma certo la sua domanda alla vigilia della rivoluzione del 1917 ha l'aspetto di una premonizione, di un pre-sentimento dell'andamento dei tempi e dunque testimonia di quanto egli fosse e sentisse il tempo in cui stava vivendo. Ultimamente mi è capitato di avere la tentazione di chiedere alla prima persona che avessi incontrato “scusi, lei cosa si aspetta dai poeti?”. Io certo non scrivo per gli altri, né scrivo ciò che penso possa piacere e/o interessare agli altri e penso che nessun poeta serio lo faccia. Scrivo perché non posso non scrivere come diceva di sé un poeta ben più grande di me come è Marina Cvetaeva. Riguardo ai ripiegamenti esistenziali in effetti sì il rischio di parlarsi addosso c'è ed è quello che temevo io con Diario inverso, invece poi a quanto pare pur parlando/raccontando di fatti personali è accaduto che le persone ci si sono riconosciute, e così mi è capitato durante alcune letture quando qualcuno alla fine è venuto a dirmi che quanto avevo letto corrispondeva al suo sentire, che avevo espresso quanto provava ma a cui non era riuscito a dare le parole giuste. Ecco forse è qui la questione. Trovare le parole giuste. La poesia è questione di esattezza e di verità questo la gente lo sente e riconosce la poesia perché la poesia è fatta di parole e deve parlare non sproloquiare, anche questa sembra una banalità, ma in fondo non lo è. Sto rileggendo in questi giorni “L'angelo necessario”  e mi piace quanto dice Stevens a proposito della poesia che ci aiuta a vivere la nostra vita, che ne esalta il sapore. (Ma concordo con lui anche quando dice che il soggetto del poeta è la sua idea del mondo) Penso sia capitato a più di qualcuno che in un momento buio della propria esistenza la lettura di una poesia sia stata d'aiuto, abbia portato un poco di luce, di conforto (così come l'ascolto di una musica, il godimento di un'opera d'arte), ma sia pure stata di illuminazione, di maggiore consapevolezza perché la poesia come dice  ancora il mio amico poeta e io con lui è un seme, ma mi piace immaginarla  pure come un batterio buono, un globulo bianco, che attacca e cerca di sconfiggere le tante malattie che minano la salute dell'anima.  Durante la mia adolescenza leggere le poesie di Leopardi, di Ungaretti e pure di Tagore mi faceva sentire meno sola e meno ostile quel mondo che mi si parava davanti e mi strappava all'infanzia. Ma tornando alla necessità di una poesia epica che torni a guardare alla Storia (per quanto riguarda il nuovo che chiede di essere nominato la poesia lo fa, lo fa tutta la poesia), volevo dirti che ho una cara amica  di sinistra che partecipa a tutte le manifestazioni - in qualsiasi città si tengano, lei prende e parte - in difesa di quei diritti umani in cui tutti crediamo eppure io no, non ho mai partecipato a nessuna manifestazione e pensavo di contro alla mia esperienza di volontariato alla Caritas e a quella della distribuzione del cibo ai senza fissa dimora che vivono nelle stazioni qui a Roma e riflettevo sul fatto che è quest'ultima la dimensione che mi si addice maggiormente. Che io devo guardarlo negli occhi l'altro, il disgraziato, lo sventurato, lo devo toccare, gli devo parlare e che dunque se gli ideali non si incarnano in persone concrete faccio fatica a viverli. E così per la poesia. La Storia con la s maiuscola mi interessa fino a un certo punto, mi interessa di più la storia con la s maiuscola delle persone che non hanno voce o l'hanno flebile. Allora la poesia amplifica la loro voce, questo sì ed è quello che ho cercato di fare nei poemetti di “La vita in dissolvenza” di cui parlavamo in quel bar di via Giulia. Poemetti/monologhi, come li ho chiamati, in cui ho dato voce a donne la cui storia è sconosciuta ai più, in cui racconto un momento cruciale della loro vita su cui altri possono emozionarsi, riflettere, ritrovare una parte di sé.
Ho scritto queste righe di getto e me ne scuso ma ci tenevo a condividere con te i miei pur confusi pensieri, scritte quasi di getto e perdonami alcune ingenuità  scrivo mentre penso mentre di solito scrivo dopo aver pensato anche se scrivere e pensare la scrittura è un validissimo alleato del pensiero,  a volte si tira dietro dei felicissimi pensieri, delle illuminate intuizioni.


16 giugno 2014
Mi accorgo ora che la mia riflessione precedente del 17 gennaio è lontanissima. Nonostante le ripetute intenzioni di incrementare questo spazio sia io che Romanò non siamo stati puntuali. Ma la ragione c'è e sta tutta nella crescita del discorso sull'epica e soprattutto sulle iniziative che oltre a questo blog abbiamo attivato.
Anzitutto le due presentazioni di blog e autori avvenute rispettivamente ili 4 e il 14 giugno, quindi appena alle spalle.

Una considerazione s'impone: abbiamo trovato un luogo per queste nostre iniziative, intendo anche le prossime, che più idoneo all'epicanuova non poteva essere. Tanto che, come l'epica (ma questa per ora è una battuta), in realtà si tratta di un non-luogo nella definizione più classica che ne dà Marc Augè. E lo dico pur sapendo che l'espressione è già bruciata dall'uso (by the way: consumiamo velocemente modi di dire ma il problema è che il consumo brucia anche il senso profondo del significato che invece meriterebbe di durare nella mente!). Si tratta della libreria Bookshop Franco Angeli alla Bicocca di Milano. Proprio di fronte al teatro degli Arcimboldi. Qui, in una piazzetta sottostante il livello della strada comunale si distende una piazzetta sulla quale insistono palazzi di nuova costruzione, di fattura modernissima e gradevole di colori e posture. Sembra di essere a Berlino. Con la differenza che nella piazzetta schiamazzano bambini e bambine come ormai non è dato vedere mentre a Berlino in ogni piazza ti devi aspettare di veder sbucare all'improvviso una nuova metro.
Qui è successo che un primo ragionare pubblico sull'epica ha trovato consensi e creato aspettative. Più di quanto pensassimo. Merito dunque della direttrice della libreria, Giulia Miele, che ci ospita, merito dei nostri due attori (Laura Vanacore e Ulisse Romanò), merito delle letture da loro fatte di autori per noi molto significativi (sono nel blog nella sezione: Testi manifesti): K. Hesse, D.Walcott, E. Pagliarani, V. Sereni, C. Pavese, J. Insana.
Merito infine della rivista Semicerchio che ha dedicato a Poesia e lavoro un numero monografico ricchissimo di testi molto significativi sia di poeti/e che di natura critica. I due critici accompagnatori e presentatori, Michela Landi e Andrea Sirotti, hanno spiegato le loro ragioni che non sono lontane dalle nostre e la riprova è arrivata dalle letture di propri testi da parte di Alessandro Broggi e Edoardo Zuccato. Sia chiaro però da subito: nessun 'arruolamento' nella poesia epicanuova. Non è questo che ci interessa. Ci fa piacere invece constatare, e di ciò vorremmo discutere, che ci sono temi e forme che si articolano profondamente nella poesia italiana che hanno preso la distanza dall'indistinto della lirica postmoderna, dagli abissi narcisistici dell'io, dal minimalismo di pensiero e riflessioni e delle loro sfumature (ché si pretendono nietzchiane e invece lo sono del nulla). Noi crediamo insomma nella tensione tra Poesia e Storia. Su ciò stiamo lavorando, nel senso che in autunno daremo vita a un ciclo di incontri che avranno come tema di fondo Poesia e Storia.


17 gennaio 2014
Incontro con Anna Santoro, poeta, scrittrice, in occasione della presentazione del suo ultimo romanzo: La nave delle cicale operose.
Perdonerà l'autrice se  qui non parlerò del suo libro, peraltro commentato e  presentato nel pomeriggio allo spazio scopricoop di via Arona da Franco Romanò. Commenterò qui invece la risposta che lei ha dato alla domanda di uno dei presenti all'incontro che suonava pressapoco così:
- Ha senso assegnare alla sua attuale scrittura una consapevole tonalità epica?
Alla domanda, proveniente dal pubblico, la scrittrice ha risposto con una chiara presa di distanza.
- Nessuna volontà di epicizzare la mia narrazione, ha concluso, la parola 'epica' è una parola troppo invasiva, pericolosa, fa persino paura e soggezione.
Le cose credo che stiano proprio così. Nell'immaginario comune la poesia e la scrittura epica sono legate ad avventure mirabolanti, conquiste di vette spirituali o materiali tra eroi ed eroine, guerrieri e guerriere, miti e rituali e magari magie, mostri e conquiste di altri mondi.
A dirla tutta sembrerebbe che dell'epica siano in grado di dare una versione moderna solo i fumetti, il cinema, la televisione e i giochi elettronici: che non è poco! C'è un intera galassia epica conquistata dai media e dal commercio.
La parola è compromessa, come tante. Ma a noi qui interessa in particolare il versante della poesia.
Depurata dalle incrostazioni ideologiche e mercantili è possibile oggi parlare di una poesia epica senza scomodare da una parte l'Iliade e l'Odissea o Ariosto e Tasso e dall'altra Walt Disney?
C'è spazio, c'è traccia nella modernità di una poesia epico-lirica che senza rinunciare alla nostra amatissima poesia lirica abbia anche un  legame stretto con la Storia del nostro recente passato e con le convulsioni del nostro presente, caotiche ma anche ricche di patrimoni?

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