La
poesia di Lucianna Argentino, spesso sospesa fra quotidianità inquieta e
irruzioni nella storia, mette, al centro della sua ultima opera, Le stanze inquiete, il tema del lavoro.
Lo sguardo è quello di una commessa di supermercato che, dal suo posto di cassiera,
vede sfilare nel tempo davanti a sé una galleria di personaggi e mondi,
specchio mutevole e spesso drammatico della nostra contemporaneità. Alla
selezione tratta dall’opera facciamo seguito con un inedito che ha come
protagonista una donna: la tragedia della violenza subita impone al poemetto un
respiro narrativo e un tono dolente ed epico, suscettibili di aprire una nuova
e felice stagione nel percorso dell’autrice.
Lucianna Argentino, nata a Roma, ha
pubblicato numerose raccolte di versi, tra le ultime ricordiamo L’ospite indocile (Passigli, 2012) e Abele (Progetto Cultura, 2015) e il
presente Le stanze inquiete (La vita
felice, 2016) da cui sono tratti i versi che seguono
Com’è il cielo oggi? Mi chiede Giuseppe,
un vecchio cieco che incontro al mattino andando al lavoro.
Spesso sono tentata di rispondergli che non lo so,
che me lo chiedo pure io com’è il cielo. Quel cielo che lui
sente prossimo,
quel cielo che una granata gli ha frantumato.
*
Venuta fuori da un cespo di lattuga
la chiocciola con le antenne
saggia l’aria attorno poi si ritrae
nel suo fragile guscio.
Ne colgo la somiglianza con noi
nati retratti in gusci di ossa e carne
e una mano d’anima, della stessa essenza,
della stessa consistenza del mistero,
di supplice sostanza…
Penso mentre la depongo tra l’erba dell’aiuola.
*
Gli odori mi commuovono, mi raccontano vite
diversamente vissute. Stimolano le ciglia olfattive
calcano emozioni, sorprendono la memoria,
o nauseano l’amigdala ma sempre scavano nicchie di pietà.
Poi c’è Silvia che spruzza del deodorante
dopo che una barbona è passata alla sua cassa.
*
Pina un metro e cinquanta di acciacchi
mi dà monete dal calore buono
e un po’ rassegnato come il suo sguardo
velato di pianto nel raccontarmi che il marito,
malato da tempo, l’ha svegliata in piena notte
e le ha detto Pina,
Alberto se ne va…
E se ne è andato, come ce ne andiamo tutti,
già distanti gli uni dagli altri
per certi invalicabili silenzi.
*
L’hanno buttato fuori il barbone,
indossava un lungo, lurido pastrano nero:
voleva una bottiglia di birra, ma loro erano i forti,
i puliti, quelli con il deodorante sotto le ascelle.
Erano loro quelli perbene, fratelli della signora bionda,
in pelliccia e grandi occhiali da sole
a cui non ha retto la vescica
quando l’hanno fermata per un controllo.
*
Mi fa trasparente,
mi fa il tasto zero di questa cassa,
l’uomo che paga e va via senza uno sguardo,
senza sapere che c’è un modo più vero
di stare nella vita. Lo sapeva Giulio,
quando mi donava mazzetti di margherite
legati con un filo d’erba, o Jaime che
mi lasciò una rosa rossa sulla cassa e scappò via.
Lo sa Eugenio che teme io possa fraintendere
le sue intenzioni quando mi offre un caffè
o Raffaele che mi portò un bicchiere di vino bianco
fingendo fosse tè. Ed è bellezza umana e fiori e caffè
sono aria, sono ossigeno,
sono la salvezza terrena dell’anima.
*
Sei piani e cinquecento sessanta passi
tra me e questo armadietto di grigio metallo
dove il camice attende il mio corpo
per farsi anima e generare foglietti
in gestazione di parole, nate per fame e per sazietà.
Negli occhi degli
uomini il pane delle stelle
mi è parso buio e raffermo,
i versi di Char
puntellano questa giornata che mi sta davanti
tutta intera, tutte in luce. Ma ecco
ora è questo l’ombra, questo stare nell’affanno del fiato,
nella me stessa di cui si spartiscono le vesti
cose adiacenti al nulla.
*
Clara ha sognato la figlia che le diceva
mamma ho freddo e
lei, disperata,
avrebbe voluto aprire la sua tomba
e metterle un cappotto
come Lidia a cui il padre, morendo,
ha chiesto portami il
sole.
È per questo che recitiamo preghiere
portiamo fiori, per non avere freddo
per non temere il buio
quando la morte ci fa sistemi
a complessità confusa.
*
A Mimì
Mimì era un uomo con lo sguardo di fiume
e dei fiumi aveva la sapienza
e stava come mai uscito dalla nascita,
rannicchiato in una bolla d’eterno.
Di stirpe extraterrena s’era perso nella vita
perché era gatto in quella precedente
e in questa - randagio senza randa
s’era trovato fatto uomo a sgusciare sogni
con rametti di rosmarino sotto il cuscino
perché almeno in sogno il vero s’avverasse.
(I soldi per il treno - a Napoli dalla vecchia madre
le fasce per le gambe tormentate,
la spesa a lui che quando sorrideva
perdeva anni e si faceva luce d’equinozio.)
Ma ero io la vera mendicante,
tu per necessità, io per troppo avere
chiedevo che qualcuno mi spogliasse
del troppo che mi faceva peso.
L’amore lo sapevi dall’assenza,
non di cosa stata e andata via,
ma come di avvento sempre rimandato.
Era quel buco, quella carezza muta
al centro della nostalgia,
quel desiderio confuso di poter mettere il cuore
nel cuore di un altro.
Per questo lasciavi che la tua anima di tufo
passasse sciolta in acqua di parole
nell’alveo di carta e inchiostro.
Ti saziava quel tuo parlarmi scritto
su vecchi fogli di quaderno.
Capitan Mimì, a volte, ti firmavi,
capitano di un pianeta dove era armonia,
era provvidenza e fede in un dio minuscolo
il cui regno stava tra le tue poche cose.
Un dio come un “sospeso” [1], un dio
avanzato,
pregato per te da qualcun altro,
richiamato dall’altodeicieli da una preghiera ingenua.
E torno su di te per ridarti fiato
e un corpo meno stanco, due gambe nuove nuove
per proseguire qui tra noi il tuo cammino.
Tiro a me il tempo come fosse una tovaglia apparecchiata
e tutto si raduna sul bordo, in bilico,
pronta la mia memoria scorticata a tutto raccogliere e salvare
quanto non è stato consumato,
quanto non è avariato nella dispensa di ricordi.
E molto lo capisco adesso,
adesso è chiaro il tuo apparire dietro il parcheggio
e stare lì a guardarmi invaghito
non di quello che di me vedevi, sapevi,
ma di quello che di me ignoravi.
Lo so ora che sempre meno
somiglio a Eva Kant come fantasticavi tu.
(I fumetti e le riviste te li passava Sergio,
il giornalaio, e li leggevi in piedi,
poggiato alla transenna tra la fermata del 671 e l’edicola).
Lo capisco ora che ho rallentato il passo,
ora che si spolvera le mani sul mio viso il tempo.
E se non posso più chiederti perdono,
né tu puoi più accusarmi, perdono lo chiedo a me
per la mia assenza dalla stanza 25
e per averlo saputo da un cartello sulla ringhiera della
metro,
da cui qualcuno ti ringraziava per il tuo sorriso,
per la tua presenza vivace e discreta.
E ti ringrazio anch’io, adesso, per il bene che sei stato.
[1] Quella del caffè
sospeso è una tradizione dei bar di Napoli. Il cliente lascia un caffè
pagato ‘sospeso’ per il povero che lo richieda.
*
Va via carica di buste piene la ragazza, bella, mora,
formosa
(lavora in un’agenzia matrimoniale mi ha detto).
Potevi portarti un
carrello per la spesa,
avresti faticato meno,
le suggerisco
e lei sgranando i begli occhi scuri,
no, mi risponde, non è sexy!
Rimango muta e penso che nessun uomo
per la strada avrebbe notato il carrello,
mentre lei si allontana ancheggiando sui tacchi alti.
*
Sbadiglia ancora alle sette e quaranta via Appia
punzecchiata dai becchi dei piccioni,
uniche presenze prima dell’uomo,
in calzoncini corti e canottiera,
che da una panchina davanti al “Maestoso”
mi chiede qualche spiccio per le sigarette.
Quattordici agosto domenica.
Stringo cuore e denti
mentre le informazioni stradali
su esodo e controesodo
mi danno il buongiorno da sopra gli scaffali.
*
Mi tiene a bada la luce, l’elettroluminescenza del neon:
sempre la stessa intensità, senza sfumature o cedimenti.
Persino le ombre se ne stanno zitte zitte,
ben raccolte sotto i piedi delle cose.
E zitta zitta me ne sto a placare la me, dentro,
che preme e scalcia. Chiudo gli occhi, allora,
e la conduco tra le stanze della sua casa,
tra gli oggetti inanimati, immobili, in attesa nell’assenza.
Il quaderno sul tavolo, la penna, il ticchettio
dell’orologio in cucina,
il copriletto rosa, la bambola di Arianna sul divano,
il cavallo a dondolo a riposo senza le spine di Damiano.
Le mostro il raggio di sole che a quest’ora
s’insinua tra le persiane accostate e lambisce la libreria…
E sento che piano s’acquieta, si calma, rinasce.
*
Era una consolazione per Gigi – lo scopettaro –
chiamarmi ogni tanto al telefono la sera,
a dire a parole quella solitudine
che gli galleggiava negli occhi durante il giorno
e pure se diceva le
femmine so’ peggio delle donne
mi si offriva come sposo. Gigi in giro con l’apetta
a vendere scope, spazzoloni,
secchi.
Gigi che mannaggia al
core della gallina, rideva
senza denti, senza riso. Gigi magro, prosciugato dalla vita,
andato via senza commiato.
*
E in ultimo ci sono io,
esercitata al bene e alla pazienza,
io con la mia vita stretta stretta,
con i miei tanti nomi,
io che osservo assediata
da centinaia d’occhi,
che nella speranza allevo parole,
io con i miei pensieri frantumati,
mandati a capo come un cattiva poesia.
Qui ogni minuto che scorre ha un volto diverso,
una diversa cifra, grani di un immenso rosario:
ognuno con la sua muta preghiera
o la sua muta bestemmia,
che poi è lo stesso se crediamo
ci sia un dio ad ascoltare.
***
Gestazione dell'addio
a Valentina
Cavalli*
“Impossibile
pronunciarla
quella parola; ma forse
si poteva farla risuonare”
(Marguerite Duras)
Trovarla nella caduta
perpendicolare
del sangue la parola giusta
che mi raschi dalla pelle tutto il
male,
che mi scavi le ossa e mi faccia
cava
per galleggiare almeno in
quest'aria
che non riesco più a respirare.
Trovarla negli otto minuti di
travaglio
della luce ora che sto come il
cielo
dismesso dalle rondini,
la verità dimenticata dall'ombra,
le lenzuola sui davanzali, al
mattino,
prostrate in un rigurgito di buio.
Trovarla la parola giusta e
difficile
ora che il mondo è tutto e solo
visibile,
la parola che è segreto e mistero
di te ed io,
quella che dice l'amore,
quella che m'è rimasta dentro muta
perché non ho più un te
e nemmeno un io e sono metallo gelido
campana che suona
tamburo che rimbomba.
Non sanno che non è solo il corpo
che m' hanno profanato
ma tutta tutta intera la vita
che il corpo ricco di messi e bello
lo sentivo
e adesso non è più mio e mi sta
addosso
come guerra, come piazza di mercato
dopo un attentato.
Corpo estirpato, corpo incolto,
concesso alla mancanza
e se Dio esiste in me non sento più
il suo alito
e sono polvere alla polvere già
ritornata.
Orrore e scempio di me in quell'ora che eccedeva,
cadeva a capofitto nella colpa
di essere stata vittima per caso, per genere,
per la distrazione di un tempo rinnegato all'innocenza
quando forse quel giorno un segno c'era stato
ma non l'ho saputo interpretare,
né serbo nulla come se mai l'avessi vissuto
né fosse stata mai la vita,
prima.
Orrore e scempio di me in quell'ora che eccedeva,
cadeva a capofitto nella colpa
di essere stata vittima per caso, per genere,
per la distrazione di un tempo rinnegato all'innocenza
quando forse quel giorno un segno c'era stato
ma non l'ho saputo interpretare,
né serbo nulla come se mai l'avessi vissuto
né fosse stata mai la vita,
prima.
C’è quella notte che era bella
e le stelle sì quelle le ricordo
anche se poi ho chiuso gli occhi
li ho chiusi forte troppo forte
forse
perché è sceso fitto il nero
e m'è rimasto dentro, non è più
andato via
e la terra s'è aperta e sono
sprofondata.
Proserpina rapita e risputata
in un tempo tumefatto fatto arco di
tenebre
sopra un vuoto sotto cui scorre
il nostro stare separati e
contigui.
Negata alla cura e alla pietà
non so di me altro che questo io
slegato
questo viso che non so più
guardare.
Non mi sono mai saputa immaginare
diversa,
altra da ciò che ero e ora non mi
riconosco,
non l'ho saputo per questo non mi
perdono
né perdono loro che perdono non me
l'hanno chiesto!
Sei anni a fissare un silenzio
ostile, avaro,
a guadare la mia anima per
ritrovare l'asciutto di un pensiero
salvato dalla mareggiata che
salvasse me.
Sei anni sepolta viva
tessendo l'unica veste possibile
per i miei fianchi sguarniti
se poco è ciò che posso indossare
se non sono riuscita a togliermeli
di dosso
quelli che mi hanno disfatto il
nome
fatto un nome sbagliato che a nulla
mi chiama
e sto gravida di risposte
inadeguate.
Sei anni saccheggiata a poco a poco
ogni attimo una formica
a portarsi via un pezzetto di me,
così ho dimenticato che fui bambina
un tempo
e dei bambini avevo il
coraggio
il vantaggio di non sapere com'è il
mondo
ma ora disincarnata e senza
incanto, consumata dalla nostalgia,
nella testa non sento altro che lo
scrosciare
di un'acqua torbida, goccia che scava il vuoto in me
- cuore del nulla -
a insidia di polsi e di caviglie
a resa di memoria e di ricordi.
Incredula è poco a dirsi
perché il cuore s'era preso tutto
lo spazio
e le ossa scricchiolavano
era Adamo che si riprendeva la sua
costola
e mi lasciava come piccola cosa
increata.
Incredula sì, ma nelle narici mi
saliva l'odore
del sudore e del fiato, l'odore
acre
di sterpaglie bruciate sulle carni
in fiamme
e mi intorpidiva, narcosi di vita
livida
e senza più metafore a farne bello
e alto il senso.
La nascita è distacco,
la vita un maldestro rammendo
ma questo nuovo strappo
con che lo posso ricucire?
Al mondo non c'è più una parola per
me,
una parola il cui peso di
consonanti e vocali
sia remo e timone per me
e-stremata, tradita
gettata lontano e senza più
racconti
attraverso cui raggiungermi
da quando le mie grida e il pianto
hanno attraversato muti
quelli che mi violavano, mi
derubavano,
saccheggiavano il mio ventre,
deturpavano il mio volto,
si spartivano le vesti della mia
anima.
Lì ho cominciato a morire,
lì è la mia vita ad essersi
incagliata
estraneo scorrere senza durata
un fiume fermo s'è fatta e fermo è
il sangue nelle vene.
Ne c'è più un luogo, né una strada
che possa ridarmi il viaggio,
il passaggio verso tutto ciò che pulsa
e può produrre gioia.
Come camera ardente il mio cuore in
cui giace in solitudine la bellezza
poiché nulla è indipendente dalla
percezione che ne abbiamo
e quando è un insulto il nascere
irredento di ogni giorno
e non più dono, grazia, persa è la
lungimiranza,
la predizione dell'oroscopo una
cosa terrena
senza la complicità delle stelle.
Non è bastata l'aria, né questo
suono incessante nel petto
per me viva dentro stagioni
sfuggite al predicato terrestre,
declinate nella fragilità degli
alveari e
senza voce alcuna che non sia
questa che dentro mi bastona.
Terra d'esilio il mio respiro
umiliato,
orfani i miei occhi privati
dell'amicizia del mondo,
sole le mie mani sottratte
dall'alleanza che lega il fiore e
l'insetto,
nudi i miei piedi perduta la
calzatura
per l'affiatamento con la terra.
Avevo un orizzonte prima, avevo una
lingua
ora fatta paura e di nulla più
misura
- gergo amaro che non m' accoglie
al pieno senso delle cose
e dell'esistere sono persa ai sensi
e alla ragione.
Lo dicono danno biologico, danno
esistenziale
la mescolatura d'ossa, di muscoli
di bile e cartilagini, di tendini
tagliati
pestati nel mortaio del mio cuore
caduto dalla tasca del tempo
ansima come qualcosa di ammutolito
che non torna a farsi suono, parola
ma batte nell'amen degli agnelli.
C'è stato un tempo in cui non
invidiavo
agli uccelli il volo perché a
quelli della mia specie,
pensavo, è dato un volo che non ha
bisogno di ali
né ha approdi certi e per questo è
tanto più prezioso
se per noi a volte il cielo scende
a farsi terra
distante lo spazio necessario
per il libero compiersi del bene e
del male
attraverso l'opera delle nostre
mani
eppure incapaci di scegliere da che parte stare
noi arresi alla mediocre fragilità
del mezzo
- né buoni né cattivi.
Condannata a raccogliere ciò che
non ho seminato,
patisco la migrazione della
coscienza
da un punto all'altro del mio
dolore,
sfuggo l'ordine prestabilito della
natura
come l'universo in fuga
dall'origine.
Accuso la ripercussione del colpo,
la decomposizione della luce
dentro la pietra calcarea degli
occhi.
Tutto, senza amore, si fa lontano
in dissolvenza, tutto è guerra e
odora di finitudine.
Per questo non sono vile
se è da tanto che penso di
restituirla
perché non so farmela nuova la
vita,
perché non fa più per me né io per lei.
E' altro e altrove ciò che mi
sottrae a questa pena
e non ha preghiera, né un dio da
invocare.
Cupio
dissolvi - partenza irregolare,
in restrizione di confine e di
speranza,
in calo di sentimento e di stupore.
Complice la funzione complementare
del male
scavo un varco nelle mura di questa
prigione
con un cucchiaio sottratto alla
mensa dei vivi,
palmo d'acciaio su cui navigo
lontano dal mio futuro.
Oltrepasso il dubbio, raccolgo il
tempo mietuto
stacco i piedi da terra e dondolo
motum
pensilem
amant
al ritmo spezzato del fiato:
altalena naviglio
che conduce al cielo
rito propizio al rinnovarmi altrove
a nuova infanzia.
Culla, dondolio e ninna nanna al
mio sonno d'addio
ai lombi tesi al balzo, alla
spinta.
Perdono chiedo a voi che m'avete
amata
perdono! ma la mia anima lacerata
più nulla trattiene
da tutto è trapassata -
assolvetemi!
come io mi assolvo nella morte ch'è
di tutti.
E perdono chiedo pure a questa
corda
alle sue fibre vegetali strette
strette
legate per legare, ne snaturo l'uso
me ne orno per slegarmi
ne faccio scandalo, inciampo nella
mia fine
e non c'è riparo a questo né
riparazione.
Segni fragili siamo, vulnerabili e
per questo belli
chiamati alla bellezza, ma troppa è
la carne da attraversare
grande il mistero di questa soglia
opaca e poca la luce fraterna tra noi.
Così la mia morte sia un muricciolo
di pietre bianche nelle cui fessure
piante e lucertole trovino riparo e
le creature umane
un poco d'ombra e di ristoro e il
vento ne faccia strumento
per un nuovo canto.
* Torino 12-7-2008. Si è
impiccata a una porta in casa sei anni dopo lo stupro. Non era riuscita a
dimenticare l'incubo. Valentina aveva 23 anni, quando una sera del mese di
giugno del 2002 tre ragazzi italiani la violentarono davanti agli occhi del
fidanzato nell'angolo buio di un parcheggio a Milano. Gli stupratori sono stati
condannati in primo grado e in appello, ma non hanno scontato neppure un giorno
di prigione, perché incensurati. Il terzo ragazzo, che quella sera era rimasto
in auto a fare il palo, non è stato condannato.
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